Washington D.C. – La divisione tutta americana dell’elezione presidenziale in due tronconi, con le primarie di partito che aprono i giochi e le elezioni nazionali che li chiudono a quasi un anno di distanza, ha il pregio di portare alla luce la moltitudine di correnti di pensiero e di conflitti ideologici che esistono anche in questo paese, nonostante un sistema rigidamente bipartitico che limita e comprime il dibattito politico interno.
In questi giorni, i candidati democratici in corsa per la nomination del 2008 sono in Carolina del Sud, dove i membri del partito voteranno sabato 26 gennaio. I repubblicani, invece, stanno facendo campagna elettorale in Florida nell’attesa del voto del 29. La strada verso la Casa Bianca prosegue così rapidamente in direzione del Super Tuesday, il martedì 5 febbraio in cui ventiquattro stati dell’unione terranno le primarie contemporaneamente. E si sente nell’aria un desiderio crescente da parte degli elettori, ma soprattutto da parte dei media, di conoscere i nomi dei due candidati che si contenderanno la presidenza in novembre. Nello scambio sempre più intenso di pronostici si cominciano a delineare in maniera netta le differenze di opinione che dividono gli attivisti di partito e l’elettorato generale.
Fino alla settimana scorsa i candidati, sia repubblicani che democratici, erano concentrati esclusivamente sulla sfida con i propri compagni di partito e le loro strategie elettorali volte a convincere gli iscritti. Nelle ultime ore invece, con l’emergere di un gruppo ristretto di candidature credibili all’interno di entrambi i partiti (Clinton e Obama per l’asinello, Huckabee, Romney e McCain per l’elefante), l’attenzione ha cominciato a spostarsi sul voto di novembre, che sarà deciso dall’elettorato moderato. D’un tratto si è aperta, da entrambe le parti, la caccia al candidato che abbia le carte in regola non tanto per aggiudicarsi la nomination quanto per conquistare il cuore dell’americano medio e mediamente disinteressato alla politica. Si tratta del fattore eleggibilità, che d’ora in avanti dominerà ogni articolo di giornale, comizio elettorale e discorso da bar, e che molto probabilmente giocherà un ruolo decisivo nelle primarie delle prossime settimane.
John McCain pare stia conquistando il sostegno di una parte crescente della dirigenza del partito repubblicano, convinta che il senatore dell’Arizona sia l’unico ad avere una qualche speranza di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. Tra gli ultimi successi di McCain, bisogna segnalare l’ufficializzazione dell’appoggio di una serie di illustri newyorkesi, tra i quali l’ex senatore Alfonse D’Amato, Henry Kissinger e Michael Finnegan che fu consigliere di George Pataki, ex-governatore dello stato (Patagi ancora non si è dichiarato). Con McCain rimangono in corsa Mitt Romney e Mike Huckabee, e l’incognita Rudy Giuliani, che sostiene di avere puntato tutto sul voto in Florida e di attendersi da questo Stato, famoso per le arance e gli immigrati cubani, una svolta decisiva in suo favore.
Il fatto che l’establishment del partito stia lentamente convergendo verso la candidatura di McCain non significa però che gli attivisti siano persuasi; tutt’altro. Chi tra loro ne ha la possibilità continua a fare campagna elettorale per il proprio favorito e visto che sono ancora solo gli iscritti ad avere il potere di determinare la nomination, non bisogna lasciarsi ingannare e credere che ormai l’esito sia scontato. Ne siano prova i sondaggi, che fino ad ora paiono aver capito poco delle primarie americane ma che almeno ne riconoscono l’incertezza. Nell’ultimo rilevamento di New York Times/CBS News condotto subito dopo le primarie del New Hampshire, il 72% dei repubblicani intervistati, e il 42% dei democratici, ha confessato di essere ancora indeciso su quale candidato scegliere.
Nel popolare blog repubblicano Townhall, Hugh Hewitt spiega ad esempio il proprio sostegno per Romney e Giuliani; “Ho in mente, nella scelta del candidato che vorrei veder nominato, l’instancabile fabbrica di attacchi personali che Hillary Clinton è capace di creare”. Nell’opinione di Hewitt il repubblicano prescelto dovrà essere in grado di scansare con ironia i colpi inflitti dalla ex first-lady e di ignorare quelle che lui chiama le “infinite macchinazioni di Clinton”. Hugh Hewitt è anche preoccupato della cronica mancanza di denaro della campagna di John McCain: “Un candidato forte non dovrebbe avere bisogno di girare per il paese con un piattino di latta in mano e supplicare gli attivisti per nuovi contributi solo pochi giorni prima di una primaria decisiva”, scrive. McCain è colpevole, secondo Townhall, di non essere stato capace di mettere assieme una macchina efficiente per la raccolta di fondi come, ad esempio, ha fatto Obama, con cui invece potrebbe competere Romney, se non altro grazie all’enorme ricchezza personale. Hewitt conclude la sua analisi in toni pessimistici: “Persino i fan di McCain devono ammettere che la sua candidatura è costruita su poco più che una doppia preghiera; il tentativo di convertire i conservatori americani al senatore dell’Arizona e quella di fargli aprire i portafogli. Purtroppo a causa delle dispute interne che li hanno visti divisi negli anni passati, i conservatori non si convertiranno alla
causa McCain, e anche se dovessero rassegnarsi alla sua candidatura, non contribuiranno economicamente alla campagna per le elezioni di novembre”.
Per ragioni differenti, ma altrettanto sentite, in un altro dei blog repubblicani più seguiti, Michelle Malkin attacca John McCain ed in particolare i suoi piani per combattere l’immigrazione. Mentre McCain si fa oggi paladino della lotta contro i clandestini ed ha assicurato il proprio appoggio per la costruzione di un vero e proprio muro che divida gli stati del sud, (California, Texas e Arizona) dal Messico, Malkin ricorda che l’anno scorso il senatore votò in favore di un’amnistia per alcune categorie di immigrati che si trovavano già da tempo sul suolo americano nonostante vi fossero arrivati illegalmente. “Come può McCain curare la sfiducia diffusa tra i cittadini se la sua stessa credibilità sulla questione è stata danneggiata fatalmente?” scrive Malkin. “Ci deve pur essere una ragione per cui tanti media e democratici di sinistra vedono positivamente la nomina di McCain per il partito repubblicano. McCain offre a costoro una buona copertura per continuare ad attaccare i veri conservatori di base”, Malkin conclude con rancore.
Che esista una frattura fra le dirigenze e la base del partito repubblicano non ci sono dubbi, così come è probabile che i media e l’elettorato moderato vedano di buon occhio una possibile vittoria di John McCain.
E’ invece opinabile l’idea che i liberal americani guardino con piacere alla nomination del senatore dell’Arizona. Piuttosto è vero il contrario; molti osservatori appartenenti alla sinistra del partito democratico paiono essere delusi e preoccupati di fronte al suo recente successo. Josh Marshall ha scritto di recente sul suo blog Talking Points Memo; “Speriamo che Mitt (Romney) vinca in Florida”. In fondo, John McCain è probabilmente il solo candidato di destra che possa vincere le presidenziali di novembre. Di conseguenza la sua vittoria nelle primarie repubblicane renderebbe le cose complicate allo sfidante democratico.
L’opinionista Walter Shapiro propone su Salon, un quotidiano di sinistra pubblicato esclusivamente sul web e considerato tra i più prestigiosi del paese, un’analisi interessante e al contempo divertente sulle varie possibili combinazioni di sfidanti alla Casa Bianca. L’intento è quello di determinare quale sia il migliore contendente democratico da opporre ai vari candidati repubblicani.
A John McCain, ragiona Shapiro, e ai suoi settantun’anni d’età, bisognerebbe opporre Obama, che con quarantasei è il più giovane tra tutti i candidati. McCain verrebbe così privato della possibilità di ricorrere incessantemente al suo passato di veterano del Vietnam e prigioniero di guerra. Obama del Vietnam ha solo qualche ricordo d’infanzia e dunque si parlerebbe d’altro. D’altro canto, il punto forza di McCain è proprio l’esperienza, che è anche la debolezza più evidente di Obama. Sarebbe forse meglio allora che fosse Clinton a battersi in un duello fra politici stagionati. Nel caso fosse Romney il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Shapiro e’ convinto che Clinton potrebbe competere alla pari quanto a perfezione robotica e immagine di ghiaccio. Però Obama potrebbe rispondere con successo al cinismo dell’ex-governatore del Massachusetts con il proprio messaggio di speranza. E via dicendo fin che Shapiro raggiunge una conclusione beffarda; “Questa campagna presidenziale si sta prendendo gioco del concetto sfuggente di eleggibilità come mai in passato. Gli elettori sia democratici che repubblicani sembrano essere estremamente confusi su quale tra i candidati del proprio partito sia il più eleggibile a livello nazionale”. Questo breve esercizio sottolinea, secondo Walter Shapiro, “la follia di chi tenta di decidere per chi votare sulla base di chi è considerato il candidato con le maggiori probabilità di successo nelle elezioni di novembre”.
Rimane, in sostanza, la grande contraddizione della politica presidenziale americana. Ovvero che le nomination di partito sono determinate dalla base degli attivisti, solitamente più radicali. Invece, per raggiungere il 51% occorre convincere la maggioranza silenziosa di elettori moderati che hanno ben poco a che spartire con gli iscritti di partito. La confusione che regna nei mesi che separano le primarie dalle elezioni nazionali offre agli americani la possibilità di confrontarsi e scontrarsi in maniera più libera di quanto il sistema bipartitico lascerebbe immaginare.
In questi giorni, i candidati democratici in corsa per la nomination del 2008 sono in Carolina del Sud, dove i membri del partito voteranno sabato 26 gennaio. I repubblicani, invece, stanno facendo campagna elettorale in Florida nell’attesa del voto del 29. La strada verso la Casa Bianca prosegue così rapidamente in direzione del Super Tuesday, il martedì 5 febbraio in cui ventiquattro stati dell’unione terranno le primarie contemporaneamente. E si sente nell’aria un desiderio crescente da parte degli elettori, ma soprattutto da parte dei media, di conoscere i nomi dei due candidati che si contenderanno la presidenza in novembre. Nello scambio sempre più intenso di pronostici si cominciano a delineare in maniera netta le differenze di opinione che dividono gli attivisti di partito e l’elettorato generale.
Fino alla settimana scorsa i candidati, sia repubblicani che democratici, erano concentrati esclusivamente sulla sfida con i propri compagni di partito e le loro strategie elettorali volte a convincere gli iscritti. Nelle ultime ore invece, con l’emergere di un gruppo ristretto di candidature credibili all’interno di entrambi i partiti (Clinton e Obama per l’asinello, Huckabee, Romney e McCain per l’elefante), l’attenzione ha cominciato a spostarsi sul voto di novembre, che sarà deciso dall’elettorato moderato. D’un tratto si è aperta, da entrambe le parti, la caccia al candidato che abbia le carte in regola non tanto per aggiudicarsi la nomination quanto per conquistare il cuore dell’americano medio e mediamente disinteressato alla politica. Si tratta del fattore eleggibilità, che d’ora in avanti dominerà ogni articolo di giornale, comizio elettorale e discorso da bar, e che molto probabilmente giocherà un ruolo decisivo nelle primarie delle prossime settimane.
John McCain pare stia conquistando il sostegno di una parte crescente della dirigenza del partito repubblicano, convinta che il senatore dell’Arizona sia l’unico ad avere una qualche speranza di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti. Tra gli ultimi successi di McCain, bisogna segnalare l’ufficializzazione dell’appoggio di una serie di illustri newyorkesi, tra i quali l’ex senatore Alfonse D’Amato, Henry Kissinger e Michael Finnegan che fu consigliere di George Pataki, ex-governatore dello stato (Patagi ancora non si è dichiarato). Con McCain rimangono in corsa Mitt Romney e Mike Huckabee, e l’incognita Rudy Giuliani, che sostiene di avere puntato tutto sul voto in Florida e di attendersi da questo Stato, famoso per le arance e gli immigrati cubani, una svolta decisiva in suo favore.
Il fatto che l’establishment del partito stia lentamente convergendo verso la candidatura di McCain non significa però che gli attivisti siano persuasi; tutt’altro. Chi tra loro ne ha la possibilità continua a fare campagna elettorale per il proprio favorito e visto che sono ancora solo gli iscritti ad avere il potere di determinare la nomination, non bisogna lasciarsi ingannare e credere che ormai l’esito sia scontato. Ne siano prova i sondaggi, che fino ad ora paiono aver capito poco delle primarie americane ma che almeno ne riconoscono l’incertezza. Nell’ultimo rilevamento di New York Times/CBS News condotto subito dopo le primarie del New Hampshire, il 72% dei repubblicani intervistati, e il 42% dei democratici, ha confessato di essere ancora indeciso su quale candidato scegliere.
Nel popolare blog repubblicano Townhall, Hugh Hewitt spiega ad esempio il proprio sostegno per Romney e Giuliani; “Ho in mente, nella scelta del candidato che vorrei veder nominato, l’instancabile fabbrica di attacchi personali che Hillary Clinton è capace di creare”. Nell’opinione di Hewitt il repubblicano prescelto dovrà essere in grado di scansare con ironia i colpi inflitti dalla ex first-lady e di ignorare quelle che lui chiama le “infinite macchinazioni di Clinton”. Hugh Hewitt è anche preoccupato della cronica mancanza di denaro della campagna di John McCain: “Un candidato forte non dovrebbe avere bisogno di girare per il paese con un piattino di latta in mano e supplicare gli attivisti per nuovi contributi solo pochi giorni prima di una primaria decisiva”, scrive. McCain è colpevole, secondo Townhall, di non essere stato capace di mettere assieme una macchina efficiente per la raccolta di fondi come, ad esempio, ha fatto Obama, con cui invece potrebbe competere Romney, se non altro grazie all’enorme ricchezza personale. Hewitt conclude la sua analisi in toni pessimistici: “Persino i fan di McCain devono ammettere che la sua candidatura è costruita su poco più che una doppia preghiera; il tentativo di convertire i conservatori americani al senatore dell’Arizona e quella di fargli aprire i portafogli. Purtroppo a causa delle dispute interne che li hanno visti divisi negli anni passati, i conservatori non si convertiranno alla
causa McCain, e anche se dovessero rassegnarsi alla sua candidatura, non contribuiranno economicamente alla campagna per le elezioni di novembre”.
Per ragioni differenti, ma altrettanto sentite, in un altro dei blog repubblicani più seguiti, Michelle Malkin attacca John McCain ed in particolare i suoi piani per combattere l’immigrazione. Mentre McCain si fa oggi paladino della lotta contro i clandestini ed ha assicurato il proprio appoggio per la costruzione di un vero e proprio muro che divida gli stati del sud, (California, Texas e Arizona) dal Messico, Malkin ricorda che l’anno scorso il senatore votò in favore di un’amnistia per alcune categorie di immigrati che si trovavano già da tempo sul suolo americano nonostante vi fossero arrivati illegalmente. “Come può McCain curare la sfiducia diffusa tra i cittadini se la sua stessa credibilità sulla questione è stata danneggiata fatalmente?” scrive Malkin. “Ci deve pur essere una ragione per cui tanti media e democratici di sinistra vedono positivamente la nomina di McCain per il partito repubblicano. McCain offre a costoro una buona copertura per continuare ad attaccare i veri conservatori di base”, Malkin conclude con rancore.
Che esista una frattura fra le dirigenze e la base del partito repubblicano non ci sono dubbi, così come è probabile che i media e l’elettorato moderato vedano di buon occhio una possibile vittoria di John McCain.
E’ invece opinabile l’idea che i liberal americani guardino con piacere alla nomination del senatore dell’Arizona. Piuttosto è vero il contrario; molti osservatori appartenenti alla sinistra del partito democratico paiono essere delusi e preoccupati di fronte al suo recente successo. Josh Marshall ha scritto di recente sul suo blog Talking Points Memo; “Speriamo che Mitt (Romney) vinca in Florida”. In fondo, John McCain è probabilmente il solo candidato di destra che possa vincere le presidenziali di novembre. Di conseguenza la sua vittoria nelle primarie repubblicane renderebbe le cose complicate allo sfidante democratico.
L’opinionista Walter Shapiro propone su Salon, un quotidiano di sinistra pubblicato esclusivamente sul web e considerato tra i più prestigiosi del paese, un’analisi interessante e al contempo divertente sulle varie possibili combinazioni di sfidanti alla Casa Bianca. L’intento è quello di determinare quale sia il migliore contendente democratico da opporre ai vari candidati repubblicani.
A John McCain, ragiona Shapiro, e ai suoi settantun’anni d’età, bisognerebbe opporre Obama, che con quarantasei è il più giovane tra tutti i candidati. McCain verrebbe così privato della possibilità di ricorrere incessantemente al suo passato di veterano del Vietnam e prigioniero di guerra. Obama del Vietnam ha solo qualche ricordo d’infanzia e dunque si parlerebbe d’altro. D’altro canto, il punto forza di McCain è proprio l’esperienza, che è anche la debolezza più evidente di Obama. Sarebbe forse meglio allora che fosse Clinton a battersi in un duello fra politici stagionati. Nel caso fosse Romney il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Shapiro e’ convinto che Clinton potrebbe competere alla pari quanto a perfezione robotica e immagine di ghiaccio. Però Obama potrebbe rispondere con successo al cinismo dell’ex-governatore del Massachusetts con il proprio messaggio di speranza. E via dicendo fin che Shapiro raggiunge una conclusione beffarda; “Questa campagna presidenziale si sta prendendo gioco del concetto sfuggente di eleggibilità come mai in passato. Gli elettori sia democratici che repubblicani sembrano essere estremamente confusi su quale tra i candidati del proprio partito sia il più eleggibile a livello nazionale”. Questo breve esercizio sottolinea, secondo Walter Shapiro, “la follia di chi tenta di decidere per chi votare sulla base di chi è considerato il candidato con le maggiori probabilità di successo nelle elezioni di novembre”.
Rimane, in sostanza, la grande contraddizione della politica presidenziale americana. Ovvero che le nomination di partito sono determinate dalla base degli attivisti, solitamente più radicali. Invece, per raggiungere il 51% occorre convincere la maggioranza silenziosa di elettori moderati che hanno ben poco a che spartire con gli iscritti di partito. La confusione che regna nei mesi che separano le primarie dalle elezioni nazionali offre agli americani la possibilità di confrontarsi e scontrarsi in maniera più libera di quanto il sistema bipartitico lascerebbe immaginare.
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