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mercoledì 10 dicembre 2008

Un altro giorno in Afghanistan

Washington D.C. -- E' stato annunciato nelle ultime settimane che 20.000 nuovi soldati americani verranno mandati in Afghanistan gia' all'inizio del 2009. Del resto e' noto che Barack Obama ha fatto dell'Afghanistan uno dei punti chiavi del proprio programma di politica estera, assieme al Pakistan e all'Iran, e in qualche modo davanti all'Iraq.
Nelle basi militari statunitensi e' gia' cominciata la preparazione, in particolare a Fort Drum nello stato di New York, dove la Terza Brigata della Decima Divisione di Montagna dell'esercito era in procinto di partire per l'Iraq e, fino a poco tempo fa, si stava addestrando a combattere nel deserto contro una popolazione indigena di lingua araba.
Poi all'improviso e' arrivato l'ordine da Washington: Si parte per le montagne dell'Asia Centrale e non per le sabbie del Medio Oriente. E cosi' la Terza Brigata e' stata mandata a scalare le montagne del Vermont per acclimatizzarsi ai picchi afghani e sono stati assunti nuovi attori di lingua Pashtu, Urdu e via dicendo, per sostenere il ruolo dei nemici talibani.
L'arrivo di questo nuovo contingente di soldati a stelle e strisce offre qualche speranza di una diminuzione almeno parziale della violenza e dell'instabilita' che ormai si e' rimpossessata del paese del Presidente Amid Karzai.
Nel frattempo pero', proprio mercoledi', un gruppo di soldati americani in pattuglia ha ucciso per sbaglio sei poliziotti dell'esercito nazionale afghano, confusi, nel chaos che regna sovrano nel paese, per militanti islamici.
Questo pezzo, pubblicato sullo scorso numero del New Yorker e scritto dalla piccola provincia di Pashmul nel sud dell'Afghanistan dove le forze NATO stanno utilizzando la minoranza Hazara per combattere i Talebani, e' imperdibile per coloro che vogliano avere un'idea di quali siano le condizioni geografiche, economiche, politiche e culturali, in cui le truppe di Europa e Stati Uniti stanno cercando di battere i militanti locali e quelli che arrivano dal Pakistan.

giovedì 4 dicembre 2008

La filosofia di Gates

Washington D.C. -- Il Segretario della Difesa Robert Gates, scelto da Bush e riconfermato lunedi' da Obama, pubblica sul numero di gennaio/febbraio della rivista Foreign Affairs la propria road-map per il futuro delle forze armate americane.
Il saggio di Gates e' uscito oggi in anteprima su Internet. Eccovi alcune anticipazioni:

"Quella che viene chiamata la guerra al terrore e', tragicamente, una prolungata e irregolare campagna mondiale -- una lotta tra le forze dell'estremismo e quelle della moderazione. L'uso diretto della forza continuera' a giocare un ruolo nella strategia di lungo periodo per battere i terroristi e altri estremisti. Ma, alla fine dei conti, gli Stati Uniti non riusciranno a conquistare la vittoria solo a forza di uccisioni e catture".

"Non pensare al futuro e non prepararsi per esso sarebbe irresponsabile, e la maggiorparte della gente al Pentagono, le forze armate e l'industria della difesa, si occupano proprio di cio'. Ma dobbiamo evitare di essere cosi' concentrati su futuri conflitti convenzionali e strategici da dimenticarci di garantirci oggi tutti gli strumenti necessari a combattere e vincere quei conflitti in cui gli Stati Uniti sono gia' coinvolti".

"Il sostegno per i programmi di modernizzazione convenzionali delle forze armate e' estremamente sentito come si vede dal budget del Dipartimento della Difesa, dalla sua burocrazia, all'industria della difesa e al Congresso. La mia preoccupazione fondamentale e' che manchi un sostegno istituzionale simile -- incluso al Pentagono - quando si tratta di vincere le guerre in corso oggi e quelle che le seguiranno prossimamente".

"Il passato recente ha dimostrato con chiarezza quali possano essere le conseguenze di un mancato intervento contro i gli stati canaglia e le insurrezioni armate. Il tipo di strumenti necessari a affrontare questi problemi non puo' essere considerato una distrazione esotica e momentanea. Gli Stati Uniti non hanno il lusso di ritirarsi solo perche' questi scenari non sono conformi al concetto di guerra accettato in America".


lunedì 1 dicembre 2008

Un'amministrazione Obama multilaterale ma anche molto aggressiva?

Washington D.C. -- Hillary Clinton e' stata selezionata ufficialmente da Barack Obama per il ruolo di Segretario di Stato. Nel frattempo, questo prossimo weekend si riuniranno a Bruxelles i Ministri degli Esteri dei paesi membri della NATO per discutere, fra le altre cose, dell'eventuale futuro ingresso nell'Alleanza Atlantica di Georgia e Ucraina.
Uno spunto di riflessione interessante su cio' che potra' avvenire in America proprio su questo tema con l'insediamento della prossima amministrazione ci arriva da un documento firmato nel 2005 sia da Hillary Clinton che dal Senatore dell'Arizona e candidato repubblicano sconfitto da Obama a novembre John McCain. In quell'anno i due proposero i nomi di Mikheil Saakashvili, Presidente della Georgia, e Viktor A. Yushchenko, Presidente dell'Ucraina, per il Premio Nobel per la Pace per il ruolo fondamentale svolto "nel guidare movimenti di liberazione" e per "l'impegno straordinario a favore della pace."
Un'altra indicazione della direzione che potrebbe prendere il Governo Obama in fatto di politica estera, seppur relativa ad altre questioni, arriva invece dalla decisione di nominare Susan Rice Ambasciatrice presso le Nazioni Unite. Rice e' conosciuta per la competenza in fatto di Africa e per la convinzione forte nella necessita' di prevenire e combattere -- anche con l'intervento armato -- ogni forma di genocidio. Per comprendere appieno il ruolo rilevante che Obama ha intenzione di attribuire a Rice, il neo-eletto Presidente americano ha persino scelto di elevare questo incarico di Ambasciatore presso l'ONU a livello ministeriale, cosa per nulla automatica. Susan Rice fara' dunque parte del gabinetto di Obama.

lunedì 15 settembre 2008

Anche la tortura e' una questione di marketing

Washington DC - Un nuovo sondaggio rilasciato l'11 settembre scorso dal Pew Forum on Religion and Public Life rivela che il 57% degli evangelici del Sud degli Stati Uniti considera la tortura accettabile laddove sia necessario ottenere informazioni fondamentali per la sicurezza del paese, mentre solo il 38% la ritiene sempre e comunque fuori questione.
Queste percentuali preoccupanti, pero', quasi si invertono nel momento in cui la domanda del sondaggio viene formulata in termini diversi. Infatti, quando agli intervistati e' stato chiesto se fossero d'accordo che "il Governo degli Stati Uniti non debba utilizzare metodi contro i nostri nemici che non vorremmo che i nostri nemici usassero contro i soldati americani," allora la percentuale di coloro che dicono che la tortura non e' mai giustificabile sale dal 38% al 52%.
David Gushee, un professore di Etica Cristiana a Mercer University e Presidente del gruppo di evangelici, ha dichiarato che i risultati del sondaggio dimostrano a quei politici contrari al ricorso alla tortura qualsiasi sia la situazione, compresi Obama e McCain, che la gente puo' cambiare opinione su questa questione nel momento in cui viene presentata e discussa da un punto di vista morale e non strategico.

mercoledì 27 agosto 2008

Da Denver un avvertimento per l'Europa

Denver, CO - "Concentratevi sull'Asia, il futuro e' li'," ha detto oggi l'ex-Presidente della Banca Mondiale James Wolfensohn -- da non confondersi con il piu' recente Wolfowitz -- parlando ad un forum organizzato dal Council on Foreign Relations a proposito del futuro delle relazioni internazionali e della politica estera americana. "Smettete di andare in Europa a studiare, a imparare lo spagnolo e il francese. Andate in Cina a imparare il cinese, andate a visitare l'India," ha insistito Wolfensohn rivolgendosi in particolare ai 750 studenti delle scuole superiori di Denver invitati ad assistere all'incontro.
In occasione di una sessione dedicata dalla DNC alla politica estera, una lista di nomi prestigiosi dell'establishment diplomatico di Washington, dall'ex-Ministro degli Esteri Madeleine Albright a Richard Holbrooke, ex-vice Ministro degli Esteri nell'amministrazione Carter, si sono ritrovati mercoledi' per discutere di come il nuovo governo eletto a novembre - nell'auspicio dei presenti sotto la guida di Barack Obama - potra' dare una svolta alla politica estera americana, ricucire le relazioni con gli alleati, contribuire a combattere la poverta' nel mondo e, soprattututto, ristabilire la leadership statunitense nel ventunesimo secolo dopo che gli ultimi otto anni di amministrazione repubblicana hanno rovinato l'immagine degli Stati Uniti nel mondo.
Il nome dell'Europa e' stato fatto di rado al convegno, se non per lamentarsi che gli Europei non sono sufficientemente attivi in questioni internazionali: un atteggiamento che indica che l'attenzione degli americani e' sempre piu' puntata sull'Asia, sul Medio-oriente e magari sulla Russia - in particolare dopo lo scoppio del conflitto con la Georgia. Ma sempre meno sulla vecchia Europa, che lentamente si sta riducendo ad essere solamente una graziosa destinazione turistica.
Si potrebbe attribuire questa visione del mondo alla tipica cecita' politica americana. Alcuni numeri snocciolati da Wolfensohn, pero', fanno davvero pensare. Ad oggi, quasi il 75% del prodotto interno lordo mondiale e' nelle mani dei paesi cosidetti sviluppati. Nel 2050 questa percentuale scendera' al 30%. A breve, la Cina sara' l'economia piu' importante del pianeta, seconda l'India, terzi gli Stati Uniti. Il Giappone dovrebbe arrivare ad essere la quarta o la quinta, la Corea del Sud subito dietro. Persino il Vietnam dovrebbe scalare la classifica fino al numero dieci. Se si guarda al mondo in quest'ottica, se si pensa al significato di una organizzazione quale il G8 attraverso la lente fornita da queste cifre, da Europei bisogna forse cominciare a pensare a cosa fare per non affondare.
Anche i dati sul reddito pro-capite sono inquietanti. Nei paesi occidentali, e' oggi circa 40.000 dollari l'anno. Nel 2050 dovrebbe salire a circa 90.000 l'anno. Nel frattempo pero' i paesi cosidetti in via di sviluppo dovrebbero passare da un redditto di 2.500 dollari l'anno ad uno di 40.000 dollari l'anno. "Questo signfica che la classe media del futuro sara' in Asia, non negli Stati Uniti o in Europa," ha spiegato Wolfensohn.
Oltre a mostrarsi del tutto indifferente all'esistenza dell'Europa, l'elite diplomatica democratica americana e' apparsa determinata a ricostruire un'immagine positiva degli Stati Uniti all'estero, riparando i danni di pubbliche relazioni causati da Bush, con l'obbiettivo di ristabilire un'egemonia politica e culturale statunitense nel nuovo secolo.
Nonostante la dicussione organizzata mercoledi' da CFR, riunendo grandi nomi della politica democratica, abbia affrontato con passione i temi dell'impegno politico, della giustizia economica e sociale, della difesa dei diritti, dell'apertura verso il mondo, della lotta alla poverta' non solo come causa umanitaria e sotto forma di beneficienza, ma come strategia reale e di lungo periodo -- perche' "quello che accade al povero in Pakistan ci riguarda direttamente," ha detto Jessica Tuchman Mathews, Presidente del Carnegie Endowment for International Peace -- la prospettiva americana sulle relazioni internazionali rimane invariabilmente quella della super potenza, magari in difficolta', ma che ha tutte le intenzioni di riprendersi il proprio ruolo nel mondo.
E cosi' il dibattito e' stato un susseguirsi di ricette attraverso cui gli Stati Uniti possono guarire le proprie ferite, partendo in particolare dall'economia -- "alla fine dei conti gli imperi nascono e finiscono sulla base della loro forza economica, e l'economia deve essere la nostra priorita'" ha detto Richard Holbrooke --, di modo da continuare a trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza.
In particolare circola ancora il tema della "promozione della democrazia all'estero", anche se, naturalmente, i democratici ne hanno una visione diversa e piu' moderata di quella mostrata da Bush. "Promuovere la democrazia non significa imporla con la forza," ha detto Madeleine Albright. "George Bush ha contribuito a dare un significato negativo a questo concetto, ma non deve sempre e per forza essere come l'invasione dell'Iraq." In sostanza, non bisogna buttare via il bambino con l'acqua sporca.
Senza arrivare a dire che non ci siano differenze in politica estera tra un'eventuale nuova amministrazione repubblicana ed una democratica -- mentre Obama ha dichiarato il proprio impegno a lavorare con le Nazioni Unite, McCain ha detto di voler creare un "concerto di democrazie" che escluderebbe, ad esempio, paesi come la Cina, mentre il Senatore dell'Illinois ha detto di voler chiudere Guantanamo e di voler ritirare le truppe dall'Iraq, quello dall'Arizona rimane vago sul primo punto e determinato a rimanere in Medio-oriente fino a data da stabilirsi - bisogna ricordarsi che, chiunque vinca a novembre, portera' alla Casa Bianca e sul palcoscenico internazionale un atteggiamento di superiorita', quello stesso che ha fatto dire oggi a Richard Holbrooke: "Il mondo vuole la leadership americana. Guardate alla Germania. L'approvazione del lavoro di Bush puo' anche essere al 30%, pero' quando Obama e' andato a Berlino si e' portato in strada 200.000 tedeschi, e avrebbe potuto fare lo stesso a Londra, o a Madrid."
Le uniche novita' degne di nota sono arrivate da Nancy Birdsall, Presidente del Center for Global Development, che, parlando di lotta alla poverta', ha insistito sul fatto che l'occidente debba offrire maggiore accesso ai propri mercati ai paesi in via di sviluppo e a proposto al futuro Presidente di selezionare i 15 paesi piu' poveri al mondo e garantire loro accesso completo e permanente, senza dazi e tariffe, al mercato domestico americano.
E da Richard Haass, Presidente del Council on Foreign Relations, che ha detto di aver capito, visitando la Cina durante i recenti giochi olimpici, che ogni paese da' una definizione diversa all'idea di sviluppo, alla meta finale a cui ambire, e che, probabilmente, la Cina ha un concetto di societa' matura e stabile assai diverso da quello degli americani o degli inglesi.
Meglio tardi che mai...

lunedì 11 agosto 2008

Il braccio lungo delle lobby

Washington D.C. - L'influenza delle lobby americane si estende al di la' della politica nazionale e arriva a toccare anche le relazioni internazionali.
Il Wall Street Journal riporta oggi che uno dei consulenti di John McCain, Randy Scheunemann, ha lavorato fino a marzo, prima di prendere parte alla campagna elettorale del Senatore dell'Arizona, per Orion Strategies, una societa' di lobbying che rappresenta tutt'ora il governo della Georgia a Washington.
Da contratto, secondo una auto-regolamentazione imposta da entrambe le campagne di McCain e Obama che impedisce ai lobbyisti di partecipare attivamente alle operazioni elettorali, Sheunemann ha preso un permesso da Orion Strategies, di cui e' uno dei due proprietari, per poter fare attivita' politica. Orion Strategies continua a rappresentare il governo della Georgia, con cui ha firmato un nuovo contratto per $200.000 in aprile.
Naturalmente, con l'inzio dello scontro armato fra Russia e Georgia, McCain ha immediatamente preso le difese della Georgia, ed il team di Obama (il candidato democratico alla Casa Bianca e' in vacanza alle Hawaii), ha accusato McCain di aver dimostrato ancora una volta di essere in mano alle lobby.
In realta', in questo caso, la comunita' internazionale in generale si sente piu' vicina alla Georgia - vista come la vittima dell'aggressione russa. E cosi' Scheunemann ha potuto ribattere criticamente alle accuse di Obama. "Con una crisi internazionale di queste proporzioni," ha dichiarato in una intervista domenica il consulente di John McCain, "qual'e' la risposta dei democratici? Attaccare me...come se difendere una democrazia in pericolo possa essere in qualche modo una cosa sbagliata."
Chiaramente la sostanza del problema, al di la' del merito specifico dello scontro Russia-Georgia, e' di capire chi faccia realmente la politica americana e in quale maniera vengano definite le proposte politiche dei candidati alla Presidenza.

mercoledì 16 luglio 2008

Il Congresso rema contro sull'Iran

Washington D.C. - Quando, finalmente, persino l'Amministrazione Bush parebbe convinta che si debba provare seriamente la via diplomatica con l'Iran, il Congresso degli Stati Uniti - paradossalmente in mano democratica - rimane l'ultimo bastione di cieca ostilita' a Teheran.
Oggi il Presidente Bush ha annunciato che mandera' l'Ambasciatore William Burns, Assistente al Ministro degli Esteri e uomo di punta degli Stati Uniti per l'Iran, come osservatore ai negoziati che si terranno il prossimo 19 luglio a Ginevra tra rappresentanti del governo iraniano e dell'Unione Europea. Burns parte per la Svizzera con il compito di ascoltare con attenzione quali siano, nella pratica, le richieste di Teheran.
Nel frattempo pero', Deputati e Senatori a stelle e strisce si sono messi al lavoro per complicare i negoziati. Martedi', i Senatori Dodd e Shelby hanno annunciato di aver trovato un accordo bipartisan per l'espansione delle sanzioni sull'Iran, in particolare per quanto riguarda il settore finanziario/bancario. E Camera e Senato stanno addirittura valutando l'ipotesi di passare una risoluzione che, secondo molti, autorizzerebbe il Presidente a dichiarare guerra all'Iran, prima ancora che una richiesta di tale genere venga avanzata dall'Amministrazione.
Si tratta dei due testi paralleli H. Con. Res. 362 e S. Res. 580, sotto esame rispettivamente alla Camera e al Senato. Se approvata, la risoluzione richiederebbe che il governo degli Stati Uniti si impegni a far rispettare le sanzioni sull'Iran a tutti i costi, inclusa la possibilita' di un blocco navale, considerato in senso militare come un vero e proprio atto di guerra.
"Neanche all'epoca della crisi missilistica di Cuba, il Presidente Kennedy autorizzo' il blocco delle navi sovietiche, bensi' chiamo' l'azione militare intrapresa una 'quarantena navale'," mi ha detto oggi per telefono Laurence Korb, ex-Assistente al Ministro della Difesa e co-firmatario, assieme ad altri due ex-militari americani, di una lettera inviata ai membri del Congresso e che chiede che la risoluzione venga rivista in quanto molto pericolosa.
Secondo Korb, per fortuna, la risoluzione non ha poi molte possibilita' di essere approvata, a meno di modificazioni significative. "Piu' che altro e' un modo, per il Congresso, di difendersi da future accuse di essere stati troppo soft con l'Iran, dovesse succedere qualcosa di terribile."

martedì 8 luglio 2008

Il Congresso cerca di limitare gli abusi dell'Esecutivo

James A. Baker III, che fu ministro sotto George H.W. Bush, e Warren Christopher, del governo Clinton, sono a capo di una commissione che ha studiato la creazione di un comitato parlamentare permanente che il Presidente degli Stati Uniti sarebbe obbligato a consultare nel momento in cui stesse valutando la possibilita' di utilizzare truppe americane in una zona di conflitto, consultazione obbligatoria per legge per ogni azione militare destinata a durare piu' di una settimana. Le uniche eccezioni sarebbero rappresentate da operazioni di intelligence, missioni umanitarie, azioni limitate dirette a terroristi internazionali e la reazione ad un attacco lanciato contro gli Stati Uniti.
La proposta arriva in risposta all'approccio dell'attuale presidente George W. Bush, che ha mostrato per tutta la durata del proprio doppio mandato la tendenza a prendere decisioni unilaterali a livello dell'Esecutivo minimizzando il piu' possibile il ruolo del Congresso. Paradossalmente, la Costituzione americana prescrive che sia proprio il Congresso l'unico organo governativo con il diritto di dichiarare guerra. Eppure sin dalla fine della seconda guerra mondiale (ed in particolare durante l'Amministrazione Bush,) i presidenti americani hanno coinvolto l'esercito americano in azioni militari senza richiedere una dichiarazione di guerra ufficiale.
“Questo nuovo statuto," ha dicharato Christopher alla stampa, "garantisce al Congresso un posto alla tavola in cui si decide se entrare o meno in guerra - un posto finalmente occupato da personale specializzato e permanente che abbia accesso a tutte le informazioni di intelligence disponibili."

giovedì 3 luglio 2008

Obama si concentra sulla politica estera

Washington D.C. - Con i sondaggi che continuano a indicare che il vento elettorale gli e' favorevole, Barack Obama cerca di affrontare quegli aspetti della propria candidatura che sono considerati i piu' deboli da parte degli osservatori, dei media e del pubblico americano. In particolare, Obama sta dedicando una crescente quantita' di tempo a parlare di politica estera, aerea in cui la sua breve carriera a livello federale (Obama e' al Senato degli Stati Uniti da soli tre anni) lo lascia scoperto alle accuse di inesperienza che arrivano dai suoi oppositori.
Cosi', la campagna di Obama sta preparando un viaggio in Europa per incontrare gli alleati, ed un altro in Iraq ed Israele, per capire meglio, da un lato la guerra, dall'altro le posizioni di Telaviv e della lobby israeliana negli Stati Uniti che continua a essere poco convinta del Senatore dell'Illinois.
Intanto, Obama pare essere intenzionato a fare aggiustamenti strategici alle proposte fin qui sostenute a proposito dell'occupazione in Iraq.
Parlando oggi in North Dakota, il Senatore ha fatto per la prima volta allusione che la politica di ritiro immediato delle truppe potrebbe subire qualche correzione, in particolare in seguito alle migliorate condizioni sul territorio in Iraq. "Ho sempre detto che la velocita' del ritiro sarebbe stata dettata dalla sicurezza delle nostre truppe e dalla necessita' di garantire la continua stabilita' del paese. Questo giudizio non cambia," ha detto Obama. "Quando andro' in Iraq e avro' finalmente l'occasione di parlare con i comandanti che sono la', sono sicuro che raccogliero ancora maggiori informazioni e che di conseguenza continuero' a raffinare le mie proposte."
I repubblicani sono immediatamente andati all'attacco, accusando Obama di cambiare idea su tutto. "Non pare esserci alcuna tematica su cui Obama non sia disposto a modificare la propria posizione a fini politici," ha commentato Alex Conant, un portavoce della segreteria nazionale del Partito Repubblicano. "Il problema di Obama in Iraq contraddice la premessa stessa della sua candidatura e mostra che anche lui non e' altro che un politico tipico."

venerdì 13 giugno 2008

Le ultime su Gitmo/2

Washington D.C. - Con il voto favorevole di cinque dei nove giudici della Corte Suprema americana, gli Stati Uniti hanno esteso il diritto all'habeas corpus ai prigionieri stranieri detenuti nella prigione di Guantanamo.
L'habeas corpus, nella tradizione giuridica anglosassone, indica il diritto di un prigioniero di richiedere che una corte federale riveda l'incriminazione e decida se l'incarceramento sia o meno giustificato.
La sentenza emessa giovedi' dalla Corte recita; "Le corti degli Stati Uniti hanno giurisdizione nel considerare gli appelli contro la condanna alla detenzione portati da cittadini stranieri catturati all'estero e incarcerati a Guatanamo Bay".
Questa decisione ribalta due leggi passate dal Congresso americano dietro pressioni dell'Amministrazione. Il Detainee Treatment Act del 2005 e il Military Commissions Act del 2006 privavano gli stranieri a Guantanamo di tale diritto.
Il Presidente Bush ha dichiarato la propria insoddisfazione per la decisione della Corte Suprema, che ritiene limiti eccessivamente la liberta' degli Stati Uniti di portare avanti la lotta al terrorismo internazionale, e ha detto che si terra' alla legge nonostante non sia d'accordo.
Si tratta di una sconfitta monumentale per George W. Bush e l'Amministrazione che ha governato gli Stati Uniti negli ultimi otto anni. Come ha sottolineato Joseph Shuman del Wall Street Journal; "cosi' come l'11 settembre in qualche modo inauguro' la Presidenza di George W. Bush, questa sentenza ne marca la conclusione."

martedì 10 giugno 2008

Le ultime su Gitmo

Washington D.C. - Human Rigths Watch ha pubblicato martedi' un nuovo rapporto sulle condizioni dei prigionieri a Guantanamo. Gli autori dello studio, Jennifer Daskal and Stacy Sullivan, ne hanno estratto un pezzo per il magazine online Salon.
Piu' della meta' dei 270 detenuti di Guantanamo, compresi molti che hanno gia' ottenuto l'autorizzazione al rilascio o al trasferimento, sono alloggiati nelle strututtre di massima sicurezza create all'interno del campo per i prigionieri non-cooperativi. Costoro hanno diritto a sole due ore di aria fresca e spendono il resto della giornata in celle piccole e buie. I pasti gli vengono consegnati attraverso un'apertura nella porta e, perche' occupino il tempo in qualche modo, tutto quello che gli viene concesso e' solitamente una copia del Corano e un libro o una rivista (spesso in inglese, lingua che molti tra i prigionieri non parlano). Anche la ricreazione, che non di rado viene autorizzata nel mezzo della notte, si svolge all'interno di gabbie individuali, cosicche' i prigionieri non possano interagire fisicamente l'uno con l'altro. Nessuno di loro ha potuto ricevere visite di familiari, e un numero molto limitato e' stato autorizzato a telefonare a casa.
Il risultato, nell'opinione degli avvocati che si stanno occupando del caso, e' che i loro clienti gia' soffrono di problemi di salute mentale seri e preoccupanti. Si sono verificati numerosi tentativi di suicidio, qualche prigioniero ha provato piu' volte. Altri dicono di avere visioni e di sentire voci. Altri ancora mostrano chiari segni di depressione e ansieta'.
Dato che il Dipartimento della Difesa americano (DoD) non permette a nessuno, giornalisti o impiegati delle organizzazioni non governative, di visitare il campo o parlare ai prigionieri, e' difficile avere un'idea accurata di cosa succeda a Guantanamo. Per di piu', DoD ha spesso rifiutato l'ingresso alla prigione a psicologi esterni, e quindi mancano degli esami seri per stabilire le condizioni di salute mentale dei detenuti.
Attraverso ripetuti colloqui con gli avvocati dei prigioniri, Human Rights Watch e' comunque riuscito a raccogliere una quantita' di informazioni sufficiente a lanciare l'ennesimo allarme su quello che sta capitando a Guantanamo.
Nel rapporto si racconta ad esempio la storia di Ahmed Belbacha, trentanovenne algerino che e' detenuto a Guantanamo dal marzo 2002. Belbacha e' stato autorizzato a lasciare il campo ma e' impossibilitato a fare cio'. L'Algeria rifiuta di riprendersi i detenuti rilasciati. Inoltre, anche se il rimpatrio fosse possibile, Belbacha si dice terrorrizzato di venir torturato dovesse rientrare nel proprio paese e ha domandato alle corti federali americane di bloccare il suo rilascio. Per ora rimane a Guantanamo, visto che nessun altro paese si e' offerto di accoglierlo. Sta rinchiuso nella sua cella senza finestre per 22 ore al giorno e ha tentato il suicidio lo scorso dicembre.
Il rapporto di Human Rights Watch riporta anche la storia di Mohammad El Gharani, che fu arrestato in una moschea a Karachi, in Pakistan, quando aveva solo 15 anni. Eppure fu considerato venticinquenne e internato da adulto all'inizio del 2002. Oggi El Gharani ha ventunanni e negli ultimi due anni e' stato detenuto in due tra le piu' rigide sezioni di Guantanamo. I suoi avvocati raccontano che il loro cliente ha gia' tentato il suicidio sette volte, tagliandosi le vene, sbattendo la testa contro le pareti della cella e cercando di impiccarsi.

giovedì 5 giugno 2008

Le colpe di Bush in Iraq

Washington D.C. - Sono stati resi pubblici oggi i risultati della seconda fase di un'inchiesta condotta dalla Commissione del Senato sui Servizi Segreti a proposito dell'inizio della guerra in Iraq.
I due rapporti che concludono Phase II, e che si possono trovare qui e qui, hanno il compito di indagare le modalita' con cui l'Amministrazione Bush ha utilizzato, e spesso distorto, le informazioni che gli provenivano dai servizi segreti americani al fine di giustificare l'intervento militare in Iraq.
Le conclusioni chiave dei due rapporti, come sottolineato dal comunicato stampa emesso dall'ufficio del Senatore Jay Rockefeller, responsabile dell'indagine, sone le seguenti;
  • Le dichiarazioni fatte dal Presidente e dal Ministro degli Interni che suggerivano che l'Iraq e Al-Qaeda operassero in cooperazione l'una con l'altra non trovano fondamento nella documentazione preparata dall'intelligence;
  • Le dichiarazioni del Presidente e del vice-Presidente secondo cui Saddam Hussein si stava preparando a fornire armi di distruzione di massa a gruppi di terroristi affinche' le utilizzassero per compiere attacchi contro gli Stati Uniti erano in realta' contraddette dall'informazione che era in possesso dei servizi segreti;
  • Le dichiarazioni fatte da Bush e Cheney a proposito della situazione post-bellica in Iraq, a livello di politica, sicurezza ed economia, non riflettevano le preoccupazioni e i dubbi espressi dall'intelligence;
  • Le dichiarazioni del Presidente e del vice-Presidente precedenti al National Intelligence Estimate dell'ottobre 2002 a proposito della capacita' dell'Iraq di costruire armi chimiche non lasciavano sufficiente spazio ai dubbi dei servizi segreti che queste attivita' si stessero svolgendo realmente;
  • La dichiarazione fatta dal Ministro della Difesa sul fatto che il governo iracheno avesse costruito delle strutture per la produzione di armi di distruzione di massa che non erano attaccabili con normali missioni aeree perche' erano sepolte sotto terra non sono basate su alcun informazione fornita dall'intelligence;
  • I servizi segreti non hanno mai confermato che Muhammad Atta incontro' un ufficiale dell'intelligence irachena a Praga nel 2001, cosa invece che e' stata ripetuta piu' volte da Cheney.

Inoltre, il rapporto conclude che gli incontri clandestini tenutesi tra rappresentanti del Pentagono e dissidenti Iraniani a Roma e Parigi nel 2001 e nel 2003 furono inappropriati e mal gestiti dall'inizio alla fine.
I Senatori repubblicani che hanno fatto parte della commissione si sono detti in disaccordo con l'opinione raggiunta alla conclusione dell'inchiesta e indignati di tale spreco di denaro pubblico.
La prima fase dell'inchiesta si concluse nel luglio 2004. Phase I porto' alla luce delle lacune fondamentali nel lavoro condotto dai servizi segreti nel valutare la minaccia realmente rappresentata da Saddam Hussein.

mercoledì 28 maggio 2008

Spese militari in crescita e controlli in calo


Washington D.C. - Un rapporto interno commissionato dal Dipartimento della Difesa (DoD), e distribuito nei corridoi del Pentagono il 31 marzo scorso, ha rilevato che a causa dell'incremento del budget militare degli Stati Uniti, il ministero non e' piu' in grado di far fronte, con le proprie forze attuali, all'aumentata necessita' di supervisione delle spese di bilancio.
Il rapporto, finito delle mani di POGO (Project On Government Oversight), ovvero una delle organizzazioni non-profit che si occupano di controllare l'attivita' del governo federale, ha finalmente raggiunto i media solo mercoledi'.
A quanto emerge, la crescita del bilancio annuale della Difesa, passato negli ultimi anni da 300 a 600 miliardi di dollari a causa, fra le altre cose, della guerra in Iraq, della guerra in Afghanistan e della lotta contro il terrorismo internazionale, sta mettendo a dura prova le risorse dell'Department of Defense Office of Inspector General (DoD OIG), l'ufficio del Dipartimento della Difesa incaricato di controllare che non avvengano frodi o sprechi nell'utilizzo del budget federale a disposizione di questo ministero.
In sostanza, dal rapporto risulta che e' venuto a mancare lo scrutinio necessario in aeree chiave, "quali l'acquisizione di armamenti di prima importanza, frodi nella gestione dell'assicurazione medica a disposizione dei dipendenti, della sostituzione di prodotti, e dei servizi segreti della difesa."
I numeri sono allarmanti. Nel solo 2007 si calcola che circa la meta' delle tasse pagate dai cittadini americani e poi indirizzate verso DoD, ovvero 152 miliardi di dollari, non e' stata tenuta sotto sufficiente controllo. La causa principale di questa mancanza e' che la mole di lavoro del singolo responsabile dell'auditing delle spese militari e' aumentato a livello esponenziale, fino rendere il lavoro stesso impossibile. Nel 1997 un ispettore era responsabile per circa 642 milioni di dollari in contratti firmati dal Dipartimento della Difesa. Nel 2007 la proporzione e' arrivata a un ispettore per 2,03 miliardi di dollari, al di la' di quanto umanamente possibile.

mercoledì 21 maggio 2008

L'indice della pace 2008

Washington D.C. - Vision of Humanity, un'organizzazione non-profit australiana che lavora per trovare una strategia comune per la soluzione di una serie di problemi diversi ma collegati che minacciano la pace nel mondo (dalla poverta al global warming), ha di recente pubblicato i risultati del Global Peace Index 2008, un progetto ideato in collaborazione con l'imprenditore australiano Steve Killelea.
Si tratta di una classifica di 140 paesi, giudicati in base a 24 parametri. L'indice tiene conto, ad esempio, del numero di conflitti esterni ed interni in cui un paese e' stato coinvolto tra il 2001 e il 2006, le relazioni intrattenute con le nazioni confinanti, il numero di morti sofferte a causa di un conflitto, la spesa militare come percentuale del prodotto interno lordo, e il numero dei cittadini che appartengono alle forze armate.
Vince l'Islanda, seguita dalla Danimarca e dalla Norvegia. L'Italia e' ventottesima. Gli Stati Uniti fanno una figuraccia e si piazzano al novantasettesimo posto, dietro, fra gli altri, anche alla Syria, all'Indonesia e alla Cina.
Ancor peggiore il risultato di Israele che finisce quint'ultimo. Seguono solamente l'Afghanistan, il Sudan, la Somalia e, fanalino di coda, l'Iraq.

martedì 8 aprile 2008

Il punto sull'Iraq

Questa mattina a Washington il Generale David Petraeus, responsabile delle forze americane in Iraq, e l'Ambasciatore statunitense a Baghdad Ryan Crocker, testimoniano davanti al Comitato per le forze armate del Senato a proposito della situazione sul campo.
Il dibattito su una guerra sempre meno gradita al pubblico e ai contribuenti americani, e che e' destinato a incidere profondamente sui risultati della campagna elettorale di quest'anno, e' ormai esclusivamente orientato a capire se la cosidetta "surge", il programma lanciato dall'Amministrazione Bush nel 2007 e che ha aumentato il numero dei soldati americani in Iraq, stia funzionando davvero, e con risultati di lunga durata, o invece stia cominciando a mostrare i primi segni di fallimento.
L'Associated Press ha riportato oggi della morte di soldato statunitense, ucciso nell'esplosione di una bomba, l'undicesimo militare caduto in Iraq da domenica. In marzo, nel quinto anniversario dell'invasione, si e' superata quota 4.000 americani ammazzati nella guerra.
In questi giorni, sempre secondo l'AP, i combattimenti si sono fatti piu' intensi proprio a Baghdad, dove 1.000 uomini dell'esercito americano stanno assediando il quartiere di Sadr City, dove la milizia Mahdi di Muqtada al Sadr si nasconde.
Vi lascio con una riflessione da The Manchurian Candidate, romanzo da cui fu tratto il celebre film omonimo di John Frankenheimer del 1962 - in Italiano "Va' e uccidi".
I bravi americani, scriveva Richard Condon nel 1959, "Sono quel tipo di gente che lascia scoppiare la guerra e poi si sorprende quando le ammazzano il figlio".