Marco Morini, dottorando in Scienze Politiche presso l'Universita' di Pavia, scrive per From the Field sulla paura di un nuovo 1929 negli Stati Uniti.
La crisi dei mutui subprime, e il fallimento di alcune istituzioni finanziarie, hanno fatto nascere il timore di un crollo del mercato, di una recessione generalizzata negli Stati Uniti. Gli ultimi dati sul numero di sottoscrittori di mutui in stato di cessazione dei pagamenti, 1,8 milioni, fanno temere che lo scoppio della bolla immobiliare si estenda al resto dell’economia. John K. Galbraith, nel suo libro The Great Crash, scrisse che crisi come quella del 1929 si verificano a intervalli nel corso della storia, e che la lunghezza degli intervalli è legata al tempo impiegato dagli uomini per dimenticare quanto è avvenuto prima.
Vi sono analogie tra gli anni Venti, il periodo che precedette il Grande Crollo, e l’oggi: in entrambi i casi il modello di sviluppo americano si è basato su una crescita vertiginosa dei consumi e dei debiti. Anche ottanta anni fa la distribuzione del reddito era estremamente diseguale, i prezzi erano stabili, la produzione e l’occupazione erano elevate e in continua crescita. Due fenomeni caratterizzarono quegli anni: il boom immobiliare della Florida e il boom azionario di Wall Street.
In quegli anni Miami, Miami Beach, Coral Gables, la costa orientale verso nord fino a Palm Beach e le città del Golfo del Messico vennero investite dal grande boom immobiliare. Un boom che però conteneva tutti gli elementi della classica bolla speculativa.
La Florida aveva un favoloso clima invernale e, grazie a strade e ferrovie, la fuga annuale verso il Sud iniziava a divenire regolare. Su questo si era provveduto a costruire un mondo di finzione speculativa: si credeva che l’intera penisola sarebbe stata ben presto popolata dai villeggianti e dagli adoratori del sole di una nuova era fatta di riposo e relax.
I terreni vennero divisi in aree fabbricabili e venduti contro pagamento in contanti del dieci per cento al “compromesso”. In pratica cambiava di mano non il terreno in se stesso, ma il diritto ad acquistarlo a un prezzo stabilito. In questo modo, una volta aumentato il valore del lotto, l’acquirente poteva rivendere il suo diritto di comprare per il prezzo da lui pagato più un tranquillo guadagno senza aver mai dovuto sborsare l’intero capitale. In questo modo, gran parte dei terreni paludosi dove gli acquirenti non pensavano affatto di andare a viverc aveva così cambiato proprietà varie volte prima che qualcun altro pensasse sul serio di andare a viverci. Come nel caso dei titoli tecnologici durante gli anni Novanta, queste proprietà di dubbio pregio continuavano ad acquistare valore giorno per giorno e potevano essere vendute con un buon margine dopo un paio di settimane.
La ricerca della ricchezza facile portò in Florida un numero crescente di persone. Ogni settimana si facevano nuove lottizzazioni e quello che, con termine vago, veniva definito “lido” giunse a indicare località a dieci, quindici, anche venti miglia dal mare. Vennero fatte lottizzazioni in zone paludose a incredibile distanza dalle città. Charles Ponzi, un intraprendente affarista bostoniano, creò un frazionamento “vicino a Jacksonville”. Si trovava a circa 65 miglia dalla città.
La congestione del traffico nello stato diventò così grave che nell’autunno del 1925 le ferrovie furono costrette a introdurre un divieto per le merci meno essenziali, tra cui i materiali da costruzione. I valori immobilirari salirono ancora in modo stupefacente. Nelle quaranta miglia di zona “interna” di Miami i lotti venivano venduti a cifre comprese fra 8000 e 20000 dollari, in riva al mare fruttavano da 15000 a 25000 dollari e le località più genuinamente litoranee fino a 75000 dollari. Cifre enormi per l’epoca.
Molta gente si indebitò, ricorrendo spesso a prestiti a rischio, che venivano concessi anche in casi limite, i m utui subprime, versione anni Venti. Di lì a poco però cominciò a venir meno l’afflusso di nuovi compratori, e il 18 settembre del 1926 due uragani, uno dopo l’altro, devastarono la costa orientale. Si disse che l’uragano aveva provocato un salutare attimo di tregua nel boom, benché si predicesse quotidianamente la ripresa. Invece l’euforia era ormai finita e i prezzi scesero in picchiata. In un certo senso, venne ripristinato il reale valore delle cose ma molte persone finirono sul lastrico.
Dal canto suo il presidente Calvin Coolidge rimase del tutto inerte, confidando a lungo nei meccanismi autoregolativi del mercato. Esibì solo un superficiale ottimismo, volto a tranquillizzare gli investitori. Quel che più sorprende è che, nonostante il crack, la convinzione che l’arricchimento della classe media americana fosse un disegno di Dio sopravvisse e contagiò i templi della finanza di Wall Street.
Anche qui la cieca fiducia nel costante incremento dei valori azionari spinse molti operatori ad indebitarsi, con conseguente forte aumento dei prestiti. Come per il settore immobiliare, anche il mercato azionario aveva un proprio modello per favorire lo speculatore. Si trattava della “contrattazione a riporto”.
L’acquirente di titoli “a riporto” otteneva un pieno diritto di proprietà in una compravendita incondizionata. Liberandosi per di più dell’onere più gravoso, cioè quello di dover tirare fuori il prezzo d’acquisto, affidando i titoli al suo agente di cambio come garanzia addizionale per il prestito con cui erano stati pagati. Egli godeva interamente il vantaggio di ogni incremento di valore, in quanto il prezzo dei titoli poteva salire, mentre il prestito con cui erano stati acquistati restava immutato.
Le banche fornivano fondi agli agenti di cambio, gli agenti di cambio li fornivano ai clienti e la garanzia addizionale tornava alla banca.
All’inizio del 1922 il volume dei crediti degli operatori di borsa era di circa un miliardo di dollari. Nel febbraio del 1929, si era attorno ai sei miliardi. La speculazione era quindi aumentata in modo rapidissimo perché la gente andava in massa a comprare azioni a riporto. In tutto il mondo si iniziò a parlare degli straordinari risultati di Wall Street e un immenso fiume di denaro cominciò a convergere su New York.
Fino all’inizio del 1928 si poteva credere che i prezzi delle azioni ordinarie crescessero per mettersi al passo con l’aumento degli utili societari, e con la prospettiva di aumenti ulteriori. Erano giorni in cui la “media” industriale di Wall Street guadagnava circa 25 punti al mese e il valore delle contrattazioni si attestava sulla cifra di quasi 5 milioni di azioni al giorno.
Ma dal marzo 1928 l’onda speculativa cominciò ad andare fuori controllo. I maggiori operatori di borsa, le autorità di controllo e il governo di Washington si esibirono in continue dichiarazioni positive, volte a confortare gli investitori e a far durare la crescita. Si era, come per gli ultimi mesi del boom degli immobili in Florida, in una situazione di “finzione speculativa”.
La misura era colma, la bolla speculativa era arrivata al limite. Occorreva quindi sgonfiarla piano piano.Qualche cassandra, come il professor Roger Babson, avvertì della possibilità di crollo, ma non venne ascoltato e chi doveva controllare, chi doveva prendere le decisioni, rimase fermo, inerte.
La banca centrale non mosse un dito, e anche l’allora governatore dello stato di New York, Franklin D. Roosevelt, responsabile per la disciplina della Borsa seguì i precetti del laissez faire.
Ma le responsabilità più grandi, di indirizzo e di controllo spettavano, ovviamente, alla Casa Bianca. Calvin Coolidge, ormai deciso a non ricandidarsi, non si curava di ciò che stava succedendo. All’inizio del 1929, qualche giorno prima di lasciare la carica arrivò a dichiarare che la situazione era “assolutamente tranquilla” e che i titoli erano “poco cari ai prezzi correnti”. In realtà nei mesi precedenti, quando era stato avvertito che la speculazione stava sfuggendo di mano, si consolò al pensiero che quella era essenzialmente responsabilità dei Governatori della Riserva Federale. Un organismo semiautonomo, nato nel 1913 e progettato per essere al riparo da possibili ingerenze dell’esecutivo. Coolidge poteva però intervenire attraverso il Ministro del Tesoro, che di quel consiglio era membro di diritto. Ma su quella come su altre questioni Andrew W. Mellon, ministro dell’epoca, era un fautore dell’inazione.
Herbert Hoover, repubblicano, succedette a Coolidge. In precedenza era stato per sei anni Segretario al Commercio e aveva quindi fatto parte di amministrazioni apertamente alleate con i grandi interessi finanziari che conoscevano da tempo le dinamiche in atto. La notizia della sua elezione diede il via ad un aumento degli acquisti mai visto. Il 7 novembre 1928, il giorno dopo la sua vittoria, i titoli borsistici principali salirono in media di oltre 10 punti.
Entrato in carica nel marzo del 1929, al primo accenno di difficoltà optò per quello che Joseph Schumpeter definì come il “tipico rimedio repubblicano”: il protezionismo. Anzichè provvedere alla fornitura di prestiti anticiclici a lungo termine e di sostenere il credito durante la crisi, estese (con il voto favorevole del Congresso) il regime protezionistico dall’agricoltura ai prodotti primari, fino ai manufatti di ogni tipo. Poi propose una generale riduzione delle imposte che si tradusse però in un modesto sgravio fiscale.
Per il resto si produsse in una lunga serie di dichiarazioni minimizzanti, facendone un importante strumento politico: affermare solennemente che la prosperità continuerà doveva assicurare che la prosperità effettivamente continuasse.
Oggi il crollo della Borsa brutale come quello dell’ottobre 1929 non c’è ancora stato ma il presidente George W. Bush non ha varato significative azioni di contenimento della crisi e le sue dichiarazioni ufficiali improntate all’ottimismo, assomigliano parecchio a quelle di Hoover. Forse, dietro la strategia di minimizzazione, vi è la volontà di proteggere la candidatura di John McCain, ormai espressione di un partito che rischia di essere respinto dagli elettori nel prossimo novembre.
Se guardiamo ancora a quei giorni lontani, possiamo constatare come i repubblicani pagassero il prezzo di tre anni di paralisi economica e politica alle elezioni del 1932, perdendo la Casa Bianca per ben venti anni e riconquistandola nel 1952 solo grazie alla candidatura anomala di Eisenhower.
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